sabato 18 gennaio 2014

Come raccontare la storia dell’arte

Nella "Avvertenza per il lettore" del suo ultimo libro Guardar lontano, veder vicino, Philippe Daverio, storico dell’arte e brillante divulgatore televisivo, scrive: “Questo non sarà mai un libro di Storia dell’Arte, con le due auliche maiuscole, non assomiglia a uno di quei tomi scolastici che hanno forse lasciato tedio e sonnolenza sui banchi di scuola”. Ho molta stima di Daverio, ma non vorrei che questa sua osservazione nascondesse una tentazione di snobismo. Mi chiedo, senza voler fare il processo alle intenzioni: con quale spirito Daverio usa quell’aggettivo, “scolastico”? Vuol forse dire che i libri scritti per la scuola fanno parte, tutti quanti, di una categoria a sé? Monsieur Daverio sa certamente che tantissime persone, negli anni, hanno studiato la storia dell’arte sui testi scritti proprio per la scuola e che ancora oggi, all’università, la base della storia dell’arte si studia sui cosiddetti “testi di liceo”. Sicuramente non ignora che la storia dell’arte di Giulio Carlo Argan, un classico della storiografia novecentesca, è nato tecnicamente come “manuale scolastico”. Si legge fra le righe, ma probabilmente è un mio errore di valutazione, che secondo lui i libri di scuola sono, per definizione, "pallosi", come direbbero i ragazzi, giacché producono "tedio e sonnolenza" (provi un po' a dire "tedio e sonnolenza" in una classe e poi veda la reazione degli studenti: se gli va bene si mettono a ridere). Personalmente ritengo che un libro è prima di tutto un libro. E che esistono libri belli e libri brutti, scritti bene o male, avvincenti o noiosi. In ogni campo e per ogni destinatario. Lo so, ho detto un’ovvietà, ma era tanto per chiarire. Condivido, però, l’idea di fondo espressa da Daverio (il quale, chiariamolo, è persona di grande cultura e di arte sa parlare molto bene): la storia dell’arte si può raccontare in molti modi. C’è chi sceglie la strada della trattazione specialistica, ma con il pericolo di risultare pedante. Qualcuno insegue il mito della sintesi, rischiando di banalizzare tutto. Invece, credo, si può essere asciutti nella trattazione senza essere superficiali. E si può, e si deve, essere scientificamente rigorosi e aggiornati senza rendere pesante la materia. E questo, indipendentemente dal pubblico a cui ci si rivolge: studenti, universitari, adulti curiosi o appassionati, persino specialisti. Chi scrive di storia dell'arte deve saper essere essenziale ma non per questo riassuntivo, evitare di trattare un poco di tutto perché non rende alcun servizio né a chi studia né a chi insegna. Mi spingo a dire che ridurre la storia dell’arte a un elenco di autori e di opere o a un ricco atlante illustrato è addirittura un delitto. Meglio scegliere la strada della selezione degli argomenti, che ovviamente non dev’essere arbitraria, cioè legata al gusto personale dell’autore, ma dettata dalla sua esperienza didattica. A questo proposito, osservo che chi insegna in un liceo ha una marcia in più. Sa bene quanto sia difficile spiegare la storia dell’arte avendo a disposizione solo due ore alla settimana: deve sempre andare al cuore dei problemi e farlo proponendo modelli di riferimento particolarmente significativi. Un testo di storia dell’arte (che per sua natura non è una monografia) deve insegnare a capire. Deve accuratamente contestualizzare dipinti, sculture e monumenti architettonici; ricordare i rapporti fra gli autori e la committenza, politica, religiosa, privata; spiegare i significati simbolici di particolari che spesso chiariscono il senso dell’opera intera; illustrare le problematiche tecniche e strutturali che pittori, scultori e architetti hanno dovuto affrontare e risolvere. Di più, un buon libro di storia dell’arte si deve spingere a tratteggiare il carattere degli artisti; ricordarne i sogni, le aspirazioni, le frustrazioni. Non fornire le solite notizie biografiche. Bisogna presentare gli autori per ciò che erano: ossia uomini (e donne, talvolta), dotati di talento e anche di genio ma non per questo meno fragili, meno vulnerabili. Tutto questo nella consapevolezza che ogni opera d’arte è, sì, legata a fattori storici e ambientali ma è anche frutto di ricerche personali, porta i segni di tormenti interiori. L’arte non è solo espressione di epoche passate, più o meno remote: è testimonianza del pensiero, della fede, del coraggio, dell’amore di uomini straordinari, che alla fine dei conti ci assomigliano, più di quanto siamo disposti a credere. Tutto questo va raccontato senza essere "pallosi". Qui si consuma la differenza tra un autore e un altro. Chi scrive di arte svela mondi nascosti senza mantenerli misteriosi; educa alla bellezza senza farla apparire inaccessibile; stimola la capacità critica mostrando nuove prospettive di pensiero; offre strumenti di giudizio. Una bella sfida, senza dubbio.
P.S. È uscita la mia nuova storia dell’arte, L’Arte svelata, edita da Laterza. Sarebbe, tecnicamente, un manuale scolastico; è il secondo che scrivo, quindi sono un recidivo. Chissà che non faccia cambiare idea a Daverio, che saluto.

Giuseppe Nifosì

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