martedì 13 novembre 2012

Della pazzia di Van Gogh e della sua morte



Foto: ARTicolando (arte in pillole)
Della pazzia di Van Gogh e della sua morte
Vuole un consolidato luogo comune che Van Gogh fosse pazzo. Di fatto, questa tesi è persino sostenuta in alcune monografie e si legge, non troppo fra le righe, anche in talune storie dell’arte. Come ha scritto magistralmente lo scrittore Antonin Artaud (1896-1948), autore del celeberrimo saggio Van Gogh, il suicidato della società (1947), l’artista era un visionario fin troppo lucido, dotato «di quella superiore lucidità che consente [...] di vedere infinitamente e pericolosamente oltre il reale». Il crollo psichico avuto ad Arles fu da tutti interpretato come follia e a mettersi nei panni dei poveri arlesiani si può pure capire. Ma Van Gogh non era pazzo. Non tecnicamente, almeno. Soffriva di allucinazioni, di melanconia, di prostrazione e di momenti di amnesia, tutti disturbi provocati e talvolta amplificati dall’abuso di alcol e di assenzio o forse da una forma di epilessia. Scrive ancora Artaud: «Pazzo Van Gogh? Chi, un giorno, è stato capace di guardare un volto umano, osservi l’autoritratto di Van Gogh. Non conosco un solo psichiatra capace di scrutare un volto umano con la stessa forza e la stessa potenza, di sezionarne spietatamente l’inconfutabile psicologia». Allora, direte, perché si è tagliato un orecchio? Perché si è ammazzato? La faccenda del taglio dell’orecchio merita riflessioni approfondite che rimandiamo a una prossima puntata. Anche sul suicidio avrei molte cose da dire. Diciamo che è stato un tentativo di suicidio andato male… nel senso che poi Van Gogh è morto sul serio! Io non sono così sicuro che volesse davvero uccidersi. Ma mettiamo, per ora, che sia stato davvero così. In una delle ultime lettere a Theo, Van Gogh scrisse che la sua morte avrebbe potuto porre fine al travaglio della famiglia: le sue opere sarebbero aumentate di valore e Theo, con la giovane moglie e il figlioletto Vincent appena nato, avrebbero potuto condurre una vita migliore. A prendere per buone queste affermazioni, si dovrebbe concludere che Vincent si uccise per fare qualcosa di utile, per realizzare l'ultima missione della sua vita, lui che (nella sua testa) non era mai riuscito a combinare nulla. Sicuramente, la tutela familiare è solo una delle possibili risposte. Forse l’artista voleva solamente porre fine al devastante senso di fallimento che lo affliggeva. Anche perché, secondo recentissime ipotesi, non fu in questo campo di grano che Vincent si sparò, come una tradizione di stampo romantico ci ha raccontato per anni, ma – assai simbolicamente – in una concimaia! L’ultimo oltraggio che Van Gogh volle fare a sé stesso e al mondo.
Vuole un consolidato luogo comune che Van Gogh fosse pazzo. Di fatto, questa tesi è persino sostenuta in alcune monografie e si legge, non troppo fra le righe, anche i
n talune storie dell’arte. Come ha scritto magistralmente lo scrittore Antonin Artaud (1896-1948), autore del celeberrimo saggio Van Gogh, il suicidato della società (1947), l’artista era un visionario fin troppo lucido, dotato «di quella superiore lucidità che consente [...] di vedere infinitamente e pericolosamente oltre il reale». Il crollo psichico avuto ad Arles fu da tutti interpretato come follia e a mettersi nei panni dei poveri arlesiani si può pure capire. Ma Van Gogh non era pazzo. Non tecnicamente, almeno. Soffriva di allucinazioni, di melanconia, di prostrazione e di momenti di amnesia, tutti disturbi provocati e talvolta amplificati dall’abuso di alcol e di assenzio o forse da una forma di epilessia. Scrive ancora Artaud: «Pazzo Van Gogh? Chi, un giorno, è stato capace di guardare un volto umano, osservi l’autoritratto di Van Gogh. Non conosco un solo psichiatra capace di scrutare un volto umano con la stessa forza e la stessa potenza, di sezionarne spietatamente l’inconfutabile psicologia». Allora, direte, perché si è tagliato un orecchio? Perché si è ammazzato? La faccenda del taglio dell’orecchio merita riflessioni approfondite che rimandiamo a una prossima puntata. Anche sul suicidio avrei molte cose da dire. Diciamo che è stato un tentativo di suicidio andato male… nel senso che poi Van Gogh è morto sul serio! Io non sono così sicuro che volesse davvero uccidersi. Ma mettiamo, per ora, che sia stato davvero così. In una delle ultime lettere a Theo, Van Gogh scrisse che la sua morte avrebbe potuto porre fine al travaglio della famiglia: le sue opere sarebbero aumentate di valore e Theo, con la giovane moglie e il figlioletto Vincent appena nato, avrebbero potuto condurre una vita migliore. A prendere per buone queste affermazioni, si dovrebbe concludere che Vincent si uccise per fare qualcosa di utile, per realizzare l'ultima missione della sua vita, lui che (nella sua testa) non era mai riuscito a combinare nulla. Sicuramente, la tutela familiare è solo una delle possibili risposte. Forse l’artista voleva solamente porre fine al devastante senso di fallimento che lo affliggeva. Anche perché, secondo recentissime ipotesi, non fu in un campo di grano che Vincent si sparò, come una tradizione di stampo romantico ci ha raccontato per anni, ma – assai simbolicamente – in una concimaia! L’ultimo oltraggio che Van Gogh volle fare a sé stesso e al mondo.
Giuseppe Nifosì

1 commento:

  1. forse bisognerebbe essere folli per capire veramente un folle.......
    http://www.artonweb.it/nonsoloarte/artecreatfollia/articolo3.htm

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