mercoledì 21 novembre 2012

Lo strano zoo di San Gerolamo


Verso il 1475, Antonello da Messina, straordinario pittore siciliano del XV secolo, dipinse una piccola tavola raffigurante San Gerolamo nello studio, che oggi, con nostra grande invidia, è conservata alla National Gallery di Londra. L’artista volle rappresentarvi il santo come un umanista del Quattrocento, seduto nella sua “zona studio” ricavata all’interno di un monumentale e singolare interno gotico: un oggetto d’arredo architet-tonico degno del più efficace design contemporaneo.  Do-po aver girovagato con lo sguardo dal mobile scrittoio, carico di occhiali, penne e boccette di inchiostro, ai libri, posati con cura sugli scaffali, chiusi, aperti, ammucchiati, ci accorgiamo che Gerolamo non è solo: nella stanza si trovano alcuni animali. A sinistra c’è un gatto che sonnecchia. A destra, un po’ nascosto nella penombra, un leone gironzola come un grosso cane tra le colonne del vasto ambiente vuoto. In quel contesto ci sembra francamente fuori posto. Altrettanto singolare è la presenza, in primo piano, di due paciosi volatili che sembrano appena sfuggiti a una voliera. Si tratta di una pernice e di un pavone. Accanto ad essi, si trova una bacinella di rame colma d’acqua. Serve ad abbeverare i pennuti? Siccome in pittura, e soprattutto in quella medievale e rinascimentale, nulla viene rappresentato per caso, escludiamo che si tratti di bizzarrie d’artista. Cioè, non è ragionevole pensare che Antonello, accortosi che gli era rimasto dello spazio vuoto, abbia deciso di riempirlo così. Per quanto riguarda il leone, la faccenda è semplice. Secondo una leggenda, Gerolamo, che visse da eremita nel deserto, tolse una spina dalla zampa del felino e l’animale, riconoscente e grato, gli divenne così devoto da seguirlo ovunque. Insomma, nei quadri in cui c’è il santo facilmente si trova anche il suo leone domestico. Più misterioso è il resto del serraglio e lì, per svelare il mistero, bisogna un po’ masticare di iconologia. Tutti questi animali sono altrettanti simboli che rivelano il tono aulico dell’intera composizione: il leone, aneddoti a parte, è simbolo della forza bruta vinta dalla pietà. La pernice allude alla fedeltà a Cristo, il pavone è simbolo della sapienza divina; l’acqua del catino richiama l’idea della purezza: e fedeltà, sapienza e purezza sono tutte virtù di cui Gerolamo è l’emblema. Un vecchio eremita coltissimo e saggio. Ma la cosa non finisce qui. L’opera, infatti, presenta due livelli di lettura, in un continuo rimando dall’uno all’altro a testimonianza della profonda vivacità intellettuale di Antonello. Pernice e pavone hanno una doppia valenza simbolica, poiché la prima è anche considerata simbolo di stoltezza, il secondo di superbia, mentre l’acqua, usata come specchio, è anche simbolo di vanità. E del resto sono elementi collocati fuori dall’ambiente in cui si trova il santo e cioè sulla cornice architettonica ma verso lo spettatore: ciò significa che stoltezza, superbia e vanità sono escluse dalla vita di Gerolamo e non oltrepassano la soglia del tempio della conoscenza. Anche il gatto, che sonnecchia ma può svegliarsi all’improvviso e colpire, simboleggia i bassi istinti da cui è bene guardarsi.
Giuseppe Nifosì

martedì 13 novembre 2012

L’importanza dei gesti


L’arte si serve di un efficace linguaggio non verbale, spesso immediatamente comunicativo, i cui codici si sono sviluppati nel tempo e che impiega particolari strumenti per rendere manifesto il significato delle immagini rappresentate. I personaggi che animano dipinti e sculture sono ovviamente muti, ma si rivolgono ugualmente all’osservatore “parlando” attraverso il linguaggio del corpo. Le parole non pronunciate sono efficacemente sostituite da gesti, pose, espressioni. La casistica dei gesti è molto ampia: vi sono gesti ancora oggi immediatamente comprensibili e comunicativi, altri che invece risultavano tali al pubblico cui le opere erano rivolte un tempo, e che a noi contemporanei possono invece apparire misteriosi o addirittura curiosi o buffi. Eppure, riconoscerne il vero significato è essenziale per una corretta e completa comprensione di un’opera. Nell’arte si individuano due grandi categorie di gesti: quelli descrittivi, che hanno un carattere prevalentemente illustrativo e indicano un’azione o dichiarano il ruolo sociale di un personaggio, e quelli espressivi, che rivelano sentimenti, emozioni, stati d’animo. Questi ultimi, codificati da una lunga tradizione iconografica, coinvolgono soprattutto braccia, mani e gambe. Per esempio, il gesto delle braccia spalancate, verso l’alto o all’indietro, equivale a un urlo straziante, l’espressione più alta del dolore e della disperazione. Nelle Crocifissioni, nei Compianti e nelle Deposizioni è un’incontrollabile esplosione di angoscia, piuttosto tipica delle figure femminili e in particolare della Maddalena, e si contrappone al dolore muto ma lacerante della Madonna. Al contrario, il gesto del braccio destro piegato e appoggiato al corpo, con il palmo della mano rivolto all’esterno, simboleggia la sottomissione al volere superiore di Dio e indica l’accettazione di una dolorosa realtà. Le braccia conserte, invece, simboleggiano uno stato di inattività, proprio di chi assiste alla manifestazione di un’azione in qualità di testimone, senza parteciparvi in maniera attiva. Quando si trovano in questa postura gli angeli che circondano la Madonna, il gesto denota uno stato d’animo adorante e contemplativo.

Giuseppe Nifosì

Ma come fa uno squalo a valere 12 milioni di dollari?


«Nell’arte contemporanea i soldi complicano e influenzano tutto e tutti». È quanto ha affermato l’economista britannico Don Thompson, autore di un saggio in cui ha recentemente indagato i meccanismi che consentono a talune opere d’arte contemporanea di raggiungere quotazioni da capogiro. Lo squalo in formaldeide dell’artista britannico Damien Hirst si può portare come l’esempio significativo. Per comprendere oggi il mercato dell’arte contemporanea non si deve mai dimenticare in quale contesto vivono e agiscono i suoi personaggi: da una parte gli artisti, protagonisti del mondo dell’arte ma spesso anche dei rotocalchi e del jet set; dall’altro gli acquirenti, il più delle volte milionari che investono delle fortune in arte conducendo complesse operazioni di mercato e di immagine. Per esempio, Steve Cohen, il magnate americano che ha pagato lo squalo imbalsamato di Hirst ben 12 milioni di dollari, gestisce un fondo di investimento, guadagna oltre 500 milioni di dollari l’anno ed espone la sua collezione d’arte nelle sue residenze. Nessuno si scandalizza più di fronte al fatto che l’arte contemporanea, soprattutto quella prodotta da artisti ancora viventi, è frutto di creatività ma anche, per usare un’espressione del settore, di “brandizzazione”: non c’è artista oggi che non aspiri a diventare un marchio ben riconoscibile, a “brandizzarsi”. Il brand, che sul mercato è appunto il marchio, in arte è quell’insieme di segni facilmente identificabili che riconducono a un nome: come dire che le sculture a forma di palloncino sono Koons, gli animali in formaldeide sono Hirst. Più il nome è famoso, più l’artista è una “star dell’arte”, più le opere aumentano le loro quotazioni sul mercato. Questo ovviamente non toglie nulla al valore degli artisti: il solo brand, chiariamolo, non basta. Ma sarebbe sciocco semplificare il quadro dell’arte contemporanea ignorando che il brand è oggi un valore aggiunto. Come scrive acutamente Thompson, «il concetto di branding è di solito associato a prodotti di consumo e consente di acquisire affidabilità. Una Mercedes offre la rassicurazione del prestigio, Prada quella dell’eleganza. Anche l’arte brandizzata funziona così. Può capitare che gli amici sgranino gli occhi se dite loro “Ho pagato quella statua di ceramica 5,6 milioni di dollari”. Ma nessuno obietterà nulla se dite “l’ho presa da Sotheby’s”, oppure “è il mio nuovo Jeff Koons”. Il branding di successo ha avuto un’influenza notevole nel far salire le quotazioni delle opere e continuerà a esercitarla ancora a lungo». Il punto è che le quotazioni degli artisti contemporanei più noti continueranno a salire. Anche i prezzi dell’arte, insomma, sono alimentati dal cosiddetto “effetto di irreversibilità”: le quotazioni di certi artisti sono oramai “irreversibili” e non scendono, possono solo progredire verso l’alto. D’altro canto, il numero dei miliardari è in continua crescita e così quello dei collezionisti. E fino a quando le opere d’arte saranno in grado di garantire uno status sociale, gli artisti potranno continuare a produrre opere dalle altissime quotazioni.
Giuseppe Nifosì

Un nuovo Gombrich?


Arte in primo piano è la Storia dell'Arte di Giuseppe Nifosì, edita dalla Casa Editrice Laterza

La recensione del Prof. Fabrizio Biferali di Arte in primo piano

Nella prefazione alla celeberrima Storia dell’arte raccontata da E. H. Gombrich, risalente alla metà del Novecento ma per certi versi ancora molto attuale, il sommo storico dell’arte viennese sottolineava con forza quali dovessero essere le tre regole auree per realizzare un efficace e il più possibile imparziale manuale di storia dell’arte:
1) «La prima di queste regole è stata quella di non parlare di opere che non potessi mostrare nelle illustrazioni; non volevo che il testo degenerasse in elenchi di nomi più o meno oscuri a quanti non conoscevano le opere in questione, e superflue per chi invece ne era a conoscenza»;
2) «La seconda regola è stata quella di limitarmi ad autentiche opere d’arte, eliminando tutto quanto fosse solo interessante come esempio di gusto o di moda»;
3) «La terza regola richiedeva anch’essa un lieve sacrificio. Mi impegnai a respingere ogni tentazione di originalità nella mia scelta, affinché capolavori conosciutissimi non fossero esclusi per far posto alle mie predilezioni personali».
Il manuale di storia dell’arte a firma di Giuseppe Nifosì Arte in primo piano. Guida agli autori e alle opere, pubblicato da Laterza, raccoglie a piene mani l’eredità di Gombrich, fatta poi propria anche da altri illustri studiosi quali Giulio Carlo Argan, Giuliano Briganti o Angiola Maria Romanini, autori di manuali destinati a incontrare il favore del pubblico e della critica. Oltre a seguire l’esempio normativo di Gombrich e dei suoi epigoni nell’ideazione di un manuale di storia dell’arte, un’operazione che già di per sé farebbe tremare i polsi per la immane mole di periodi, artisti e opere da prendere in esame, Nifosì ha voluto dare ampio risalto all’arte europea, i cui sviluppi risultano da sempre indissolubilmente intrecciati alla genesi e agli esiti dell’arte italiana. Non mancano, inoltre, approfondimenti su una produzione artistica considerata a torto «minore», ossia quella degli arredi e dei molteplici oggetti che formano un arredo.
I volumi sono strutturati su più livelli, ciascuno dei quali offre un diverso grado di approfondimento: come spiega l’autore, il primo livello è rappresentato da un testo che precede il capitolo vero e proprio e che «affronta sinteticamente l’argomento del capitolo stesso e può all’occorrenza sostituirlo, per una trattazione più rapida, per un ripasso, per una veloce consultazione»; il secondo livello, invece, «sviluppa l’argomento in un quadro storico ampio e si basa sull’analisi delle opere, alcune delle quali sono poste in primo piano perché meritano una particolare attenzione critica»; il terzo e ultimo livello, infine, è costituito da «una serie di apparati, cioè voci di glossario e schede, che sviluppano e approfondiscono gli argomenti trattati, soffermandosi sul significato dei termini utilizzati, sulle fonti dell’arte, sull’iconografia delle opere, sulle problematiche artistiche più complesse, sulle tecniche più comunemente usate».
Quello che alla fine emerge sfogliando il manuale di Nifosì, che si snoda attraverso un percorso diacronico dal Paleolitico all’arte contemporanea, è la straordinaria parabola creativa dell’uomo analizzata nelle sue più originali e influenti realizzazioni artistiche e nei suoi più disparati strumenti, materiali, supporti, tecniche. Pur nella necessità di dover sintetizzare epoche storiche complesse e talvolta divergenti tra loro, artisti e committenti di ogni latitudine, oggetti differenti per forma e per contenuto, Nifosì ha saputo tratteggiare con un linguaggio chiaro e semplice, ma mai privo di rigore filologico, il lungo e complesso percorso storico dell’umanità attraverso le sue innumerevoli rappresentazioni e autorappresentazioni più o meno realistiche, più o meno simboliche, più o meno celebrative. Insomma, ha tratteggiato con abilità e leggerezza la millenaria e affascinante avventura del linguaggio dell’arte.
D’altra parte l’uomo senza l’arte, come già dimostrano le ingenue creazioni databili all’alba della sua storia, non sa vivere, ma sa solo sopravvivere: per mezzo della creazione artistica, infatti, l’essere umano modella la sua vita e i suoi gusti, ma anche la natura che lo circonda, spesso piegandola ai suoi scopi e non di rado migliorandola, verrebbe da dire «umanizzandola». Non a caso, forse, il motto scelto da Tiziano recitava orgogliosamente, raccogliendo i frutti di una tradizione ancestrale, NATVRA POTENTIOR ARS, «l’arte è più potente della natura».

Fabrizio Biferali

Della pazzia di Van Gogh e della sua morte



Foto: ARTicolando (arte in pillole)
Della pazzia di Van Gogh e della sua morte
Vuole un consolidato luogo comune che Van Gogh fosse pazzo. Di fatto, questa tesi è persino sostenuta in alcune monografie e si legge, non troppo fra le righe, anche in talune storie dell’arte. Come ha scritto magistralmente lo scrittore Antonin Artaud (1896-1948), autore del celeberrimo saggio Van Gogh, il suicidato della società (1947), l’artista era un visionario fin troppo lucido, dotato «di quella superiore lucidità che consente [...] di vedere infinitamente e pericolosamente oltre il reale». Il crollo psichico avuto ad Arles fu da tutti interpretato come follia e a mettersi nei panni dei poveri arlesiani si può pure capire. Ma Van Gogh non era pazzo. Non tecnicamente, almeno. Soffriva di allucinazioni, di melanconia, di prostrazione e di momenti di amnesia, tutti disturbi provocati e talvolta amplificati dall’abuso di alcol e di assenzio o forse da una forma di epilessia. Scrive ancora Artaud: «Pazzo Van Gogh? Chi, un giorno, è stato capace di guardare un volto umano, osservi l’autoritratto di Van Gogh. Non conosco un solo psichiatra capace di scrutare un volto umano con la stessa forza e la stessa potenza, di sezionarne spietatamente l’inconfutabile psicologia». Allora, direte, perché si è tagliato un orecchio? Perché si è ammazzato? La faccenda del taglio dell’orecchio merita riflessioni approfondite che rimandiamo a una prossima puntata. Anche sul suicidio avrei molte cose da dire. Diciamo che è stato un tentativo di suicidio andato male… nel senso che poi Van Gogh è morto sul serio! Io non sono così sicuro che volesse davvero uccidersi. Ma mettiamo, per ora, che sia stato davvero così. In una delle ultime lettere a Theo, Van Gogh scrisse che la sua morte avrebbe potuto porre fine al travaglio della famiglia: le sue opere sarebbero aumentate di valore e Theo, con la giovane moglie e il figlioletto Vincent appena nato, avrebbero potuto condurre una vita migliore. A prendere per buone queste affermazioni, si dovrebbe concludere che Vincent si uccise per fare qualcosa di utile, per realizzare l'ultima missione della sua vita, lui che (nella sua testa) non era mai riuscito a combinare nulla. Sicuramente, la tutela familiare è solo una delle possibili risposte. Forse l’artista voleva solamente porre fine al devastante senso di fallimento che lo affliggeva. Anche perché, secondo recentissime ipotesi, non fu in questo campo di grano che Vincent si sparò, come una tradizione di stampo romantico ci ha raccontato per anni, ma – assai simbolicamente – in una concimaia! L’ultimo oltraggio che Van Gogh volle fare a sé stesso e al mondo.
Vuole un consolidato luogo comune che Van Gogh fosse pazzo. Di fatto, questa tesi è persino sostenuta in alcune monografie e si legge, non troppo fra le righe, anche i
n talune storie dell’arte. Come ha scritto magistralmente lo scrittore Antonin Artaud (1896-1948), autore del celeberrimo saggio Van Gogh, il suicidato della società (1947), l’artista era un visionario fin troppo lucido, dotato «di quella superiore lucidità che consente [...] di vedere infinitamente e pericolosamente oltre il reale». Il crollo psichico avuto ad Arles fu da tutti interpretato come follia e a mettersi nei panni dei poveri arlesiani si può pure capire. Ma Van Gogh non era pazzo. Non tecnicamente, almeno. Soffriva di allucinazioni, di melanconia, di prostrazione e di momenti di amnesia, tutti disturbi provocati e talvolta amplificati dall’abuso di alcol e di assenzio o forse da una forma di epilessia. Scrive ancora Artaud: «Pazzo Van Gogh? Chi, un giorno, è stato capace di guardare un volto umano, osservi l’autoritratto di Van Gogh. Non conosco un solo psichiatra capace di scrutare un volto umano con la stessa forza e la stessa potenza, di sezionarne spietatamente l’inconfutabile psicologia». Allora, direte, perché si è tagliato un orecchio? Perché si è ammazzato? La faccenda del taglio dell’orecchio merita riflessioni approfondite che rimandiamo a una prossima puntata. Anche sul suicidio avrei molte cose da dire. Diciamo che è stato un tentativo di suicidio andato male… nel senso che poi Van Gogh è morto sul serio! Io non sono così sicuro che volesse davvero uccidersi. Ma mettiamo, per ora, che sia stato davvero così. In una delle ultime lettere a Theo, Van Gogh scrisse che la sua morte avrebbe potuto porre fine al travaglio della famiglia: le sue opere sarebbero aumentate di valore e Theo, con la giovane moglie e il figlioletto Vincent appena nato, avrebbero potuto condurre una vita migliore. A prendere per buone queste affermazioni, si dovrebbe concludere che Vincent si uccise per fare qualcosa di utile, per realizzare l'ultima missione della sua vita, lui che (nella sua testa) non era mai riuscito a combinare nulla. Sicuramente, la tutela familiare è solo una delle possibili risposte. Forse l’artista voleva solamente porre fine al devastante senso di fallimento che lo affliggeva. Anche perché, secondo recentissime ipotesi, non fu in un campo di grano che Vincent si sparò, come una tradizione di stampo romantico ci ha raccontato per anni, ma – assai simbolicamente – in una concimaia! L’ultimo oltraggio che Van Gogh volle fare a sé stesso e al mondo.
Giuseppe Nifosì

Il simbolo è servito!


Nel Seicento, e in tutta l’Europa, grandissima fortuna ebbe il genere della natura morta, e nello specifico la rappresentazione di tavole imbandite. Gli acquirenti di queste trionfali rappresentazioni di frutta, dolci, carni, formaggi furono normalmente borghesi, che amavano appenderle nelle proprie  sale da pranzo. Il cibo che i pittori dipingevano costituiva la gioia della tavola dei ricchi; la rappresentazione delle posate, delle stoviglie e delle cristallerie celebrava il loro benessere. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che nelle nature morte è spesso possibile riscontrare un qualche significato allegorico. È il caso di un celebre quadro del pittore tedesco Georg Flegel (1566-1638), dipinto nel 1635, che rappresenta una tavola semplicemente imbandita, con cibi e bevande della sua tradizione popolare. Notiamo sulla parte destra un boccale di birra, al centro un grande pane e sul lato sinistro un bicchiere di vetro soffiato colmo di vino e un piatto di cipolle fresche. In primo piano, campeggiano un tagliere con un’aringa affumicata, alimento diffusissimo in tutta Europa, e un lungo coltello con il manico di corno. Sul tavolo, a testimonianza della scarsa igiene dell’epoca, passeggia indisturbato un insetto. Insomma, si tratta della rappresentazione di un pranzetto genuino e appetitoso e questo è infatti il significato letterale dell’opera. Ma se di ogni elemento consideriamo il relativo significato simbolico, ecco che tutto il dipinto ci appare sotto una nuova luce e si rivela come una coltissima allegoria della morte di Cristo che sconfigge il male e cancella il peccato. Il pane e il vino sono espliciti simboli eucaristici (il corpo e il sangue del Redentore). L’animale simile ad uno scarabeo è un cervo volante, insetto tradizionalmente associato al male a causa di un’antica tradizione che lo voleva capace di trasportare con le mandibole piccoli tizzoni ardenti causando incendi e seminando morte e distruzione. Siccome qui l’insetto minaccia il pesce, uno dei simboli più antichi di Gesù, esso vuole rappresentare Satana che si contrappone a Cristo. Anche la cipolla, per la sua proprietà di irritare gli occhi, simboleggia il dolore prodotto dal peccato. La birra, invece, essendo una bevanda tipica dei paesi della Riforma, serve a marcare l’identità tedesca dell’autore: è un po’ come se fosse la sua firma.
Giuseppe Nifosì

lunedì 12 novembre 2012

Inaugurazione blog

Dopo la creazione della pagina Facebook di Arte in primo piano inizia oggi anche l'avventura del blog. Sarà una occasione per comunicare e parlare di arte insieme