domenica 7 settembre 2014

La sfida della complessità


Intervista a Giuseppe Nifosì


Professor Nifosì, a suo avviso qual è la funzione di un libro di testo?
L’oggetto da conoscere non è il libro in sé ma, ovviamente, la disciplina. Il libro è prima di tutto uno strumento, che deve aiutare l’insegnante a insegnare e lo studente a imparare. Può risultare ovvio ma non è così scontato. Chi sostituisce la disciplina con il libro di testo compie un errore gravissimo, perché rischia di inaridire la sua materia. Ciò detto, è altrettanto vero che i ragazzi imparano anche attraverso il libro. Bisogna quindi saper valorizzare i testi e saperli usare.

Il libro è dunque uno strumento. Ce ne sono altri?
Il primo strumento in assoluto è il dialogo con i ragazzi. Gli studenti incontrano una materia attraverso la parola e, aggiungerei, il cuore dell’insegnante, che dovrebbe essere sopra ogni cosa “un maestro”, nell’accezione più nobile del termine. Credo ancora molto nel potere affabulatorio dei professori. Anche quando si utilizzano supporti digitali o cartacei, tali strumenti non devono sostituire il contributo essenziale dell’insegnante; devono casomai aiutarlo a fare il proprio lavoro. Non credo che un libro di testo possa sostituire un bravo insegnante. E’ altrettanto vero, però, che un buon libro di testo può essere un validissimo aiuto anche per l’insegnante più bravo. Ma, e questo è il punto, dev’essere veramente un buon libro, e non il risultato di una semplice operazione editoriale. Ci sono libri scritti per vendere, asserviti alle regole del marketing, e che quindi risultano neutri, freddi. Questi non coinvolgeranno mai gli studenti e lasceranno il docente “da solo” a svolgere il suo, peraltro difficile, compito. Altri testi sono scritti da chi lavora con passione, e questo si capisce anche solo leggendone poche pagine. Personalmente, difendo i testi concepiti da un solo autore o da pochi autori che lavorano bene, insieme, da anni.

E chi è il bravo insegnante?
Il bravo insegnante è l’uomo, la donna, che con le sue conoscenze, con le sue competenze e prima di tutto con la sua passione e l’amore per la sua materia, può accompagnare i ragazzi in un percorso che non è solo di apprendimento ma di conoscenza.

Un bravo insegnante ha bisogno del libro di testo?
Come dicevo, un bravo insegnante riesce a coinvolgere i ragazzi anche senza fare uso del libro in classe. È chiaro, però, che il libro è indispensabile, perché è con questo che i ragazzi poi si misurano nello studio. Quindi, dal libro di testo non si può prescindere. Ecco perché va scelto bene. Non credo affatto che gli studenti, a casa, possano gestire la materia solo utilizzando i propri appunti, che hanno un valore molto relativo, anche perché i ragazzi, al liceo, non sanno ancora prenderli.

Che rapporto c’è, o che rapporto ci dovrebbe essere, tra lezioni e libro di testo?
Se il docente non apprezza il libro che si è trovato in adozione, proporrà agli alunni un percorso diverso da quello delineato dal testo o addirittura confliggente con esso. Per i ragazzi questo è dannoso, perché possono andare in confusione: non sanno se devono fare riferimento a quello che ha detto l’insegnante o a quanto c’è scritto sul libro. Quindi, la condizione ideale è che il docente apprezzi il libro adottato, che lavori non “attraverso di esso” ma “insieme” ad esso, e che metta i ragazzi in condizione di proseguire anche da soli, quando poi sono a casa a studiare, quel percorso di conoscenza intrapreso in classe. Un buon libro di testo, insomma, dovrebbe essere come una sorta di professore virtuale e chi scrive i cosiddetti “manuali scolastici” (termine che detesto perché lo considero riduttivo) dovrebbe essere consapevole di avere una grande responsabilità: perché, supportando il lavoro dell’insegnante, a sua volta insegna.

Il docente deve quindi insegnare a usare il libro?
Certo. Il docente non può prescindere dal libro, nella misura in cui è consapevole che su quello i ragazzi dovranno prepararsi. La conoscenza del testo da parte del professore, le sue indicazioni sull’uso del libro fornite a scuola aiutano gli studenti a diventare autonomi nello studio.

Torniamo all’oggetto della disciplina. Un buon libro sulla Cappella Sistina non è la Cappella Sistina. Qual è, dunque, nello specifico il compito di un professore di storia dell’arte?
In classe bisogna aiutare i ragazzi a comprendere dell’arte, a scoprire la bellezza che l’arte ci racconta, a indagare il mondo che dietro l’arte si nasconde, a riconoscere l’uomo che vive dentro l’artista, cioè la persona e non solo il personaggio. È evidente che la storia dell’arte non sostituisce l’arte, è evidente che un libro che parla della Sistina non sostituisce la Sistina. Però è importantissimo che – augurando ai ragazzi di poter vedere l’originale, e più di una volta – il docente e il libro insegnino ai ragazzi a guardare la Sistina.

In che modo?
Come dicevo, introducendoli in un percorso di scoperta. La storia dell’arte è una faccenda complessa. Si corre il rischio di identificarla con la semplice visione dell’opera d’arte, con certe coordinate di lettura (forma, colore, composizione) utili ma non esaustive. Invece, la questione è molto diversa e molto più affascinante. L’opera d’arte cela tutto un mondo che deve essere svelato ai ragazzi.
Questo è il compito del docente. È un compito difficile, e io credo che un professore possa assolverlo al meglio se sostenuto da un libro di testo adeguato. I libri di storia dell’arte che si limitano a descrivere l’opera d’arte (quanti ce ne sono!), che non svelano il mondo dell’arte, privano i giovani, che stanno imparando a comprendere la realtà, a conoscere la vita, di una grande opportunità. Gli atlanti illustrati con tante foto e testi poveri sono libri poco utili, perché non sono capaci di accendere alcuna scintilla.

Come si accende questa scintilla?
Tante volte i ragazzi dicono: «A me l’arte non piace», «Non la capisco» o addirittura «Io odio la storia dell’arte». Che questo accada mi sembra veramente un delitto.
Insegnare la nostra materia è diventato molto difficile, perché i ragazzi oggi sono continuamente bombardati da immagini. Tra video, foto e cinema, sono talmente abituati a vedere immagini colorate, compresse, in vorticoso movimento che spesso trovano banale, noioso ciò che vedono o leggono sui libri e che a loro non alimenta alcuna passione. Insomma, l’arte rischia di essere vista come un videogioco oramai vecchio, superato. Ma questo accade quando i ragazzi non capiscono veramente ciò che studiano. Quindi, a maggior ragione, la scuola ha oggi il compito di guidare i giovani alla scoperta del mondo e delle proprie radici culturali. È senza dubbio una bellissima sfida.

Lei è un autore di libri, ha già scritto due testi scolastici. Immagino sia stato lei a scegliere quali immagini pubblicare nelle sue storie dell’arte. Ecco: testo e immagini. In un manuale di storia dell’arte che relazione ci deve essere tra i due elementi?
Un libro di storia dell’arte non può essere solo di testo, fatto solo di parole, perché le immagini “sono” l’arte, o meglio la rappresentano. D’altro canto non ci si può limitare a mostrare delle belle immagini che poi non vengono spiegate. Io, come lei ricordava, ho scritto due storie dell’arte, entrambe edite da Laterza: Arte in primo piano, che è del 2010, e L’arte svelata, che è uscita proprio quest’anno. In entrambi i casi, le immagini hanno grande importanza ma sono sostenute da uno scritto che non solo le descrive – a volte le immagini parlano anche da sé – ma guida lo studente alla scoperta delle opere proposte.
Ci sono due possibili approcci all’arte o all’architettura. Uno istintivo, legato al gusto personale. Questo è favorito da tutti quei libri d’arte (e non mi riferisco sono ai testi scolastici) che si limitano a “presentare” i grandi capolavori e mettono il lettore giusto nelle condizioni di dire «mi piace», «non mi piace». Un secondo possibile approccio conduce invece a una comprensione più profonda di quelle opere. Un testo di storia dell’arte (che, attenzione, per sua natura non è una monografia) deve prima di tutto insegnare a capire.

In che modo?
Le opere d’arte, e allo stesso modo i monumenti architettonici, devono essere presentati a più livelli: contestualizzati, inseriti nel loro periodo storico, legati ai rapporti che gli autori avevano con la committenza, politica, religiosa, privata. Devono essere anche chiarite le problematiche tecniche e strutturali che pittori, scultori e architetti hanno dovuto affrontare e risolvere. Le opere d’arte vanno spiegate, in altri termini, e spiegate sul serio. Altrimenti non si comprendono davvero. Si crede di averlo farlo ma è solo una illusione. Ed è anche un peccato. Inoltre, ogni opera deve essere analizzata in relazione alla vita e alla personalità dell’artista. Questo è un aspetto sul quale punto molto come autore: non dobbiamo dimenticare che l’opera d’arte è sicuramente il portato di una cultura ma è anche l’esito di un’esperienza personale. È, sì, legata a fattori storici e ambientali ma è anche frutto di ricerche personali, porta i segni di tormenti interiori. Gli artisti, gli architetti, sono stati uomini, prima di tutto, come noi: uomini (e donne, ovviamente) pieni di talento, talvolta geniali ma non per questo meno fragili, meno vulnerabili. La loro umanità non dev’essere dimenticata. È nostro compito ricordarne i sogni, le aspirazioni, le frustrazioni, senza limitarci a fornirne le solite notizie biografiche. Questo ce li rende vicini, li mantiene vivi. Ci svela, e soprattutto rivela ai ragazzi, che alla fine dei conti tutti gli artisti, anche i più grandi, ci assomigliano.

Ritiene che questo approccio sia una peculiarità dei testi che lei ha scritto?
Assolutamente si. È stato, anzi, il mio presupposto. La storia dell’arte si può raccontare in molti modi. Ma non credo che tutti i modi siano giusti. Riconosco che ci sono buoni testi in circolazione, però molti di questi, a mio modesto avviso, non vanno granché a fondo nella faccenda: non cercano di spiegare la storia dell’arte nella sua complessità.
Vedo che molti autori inseguono il mito della sintesi a tutti i costi. Prevale nei loro scritti la falsa idea che la storia dell’arte vada riassunta e semplificata. Non sono d’accordo, perché spesso semplificare significa banalizzare. Credo che la storia dell’arte sia da presentare in tutta la sua complessità, che vada resa chiara ma non sterilizzata. Si può essere asciutti nella trattazione (talvolta è necessario esserlo) ma non per questo diventare superficiali.
Per esempio, tante opere d’arte presentano al loro interno una serie di simboli (rappresentazioni di oggetti, piante e gesti) che offrono chiavi di lettura importantissime per accedere al vero significato dei soggetti illustrati. Questo particolare approccio allo studio dell’arte, tipico degli iconologi, spaventa molti autori. Ma non parlare dei simboli significa mortificare la lettura di un’opera d’arte. E, d’altro canto, ritenere che trattare di queste cose possa annoiare i ragazzi è un clamoroso errore. L’esperienza mi insegna, al contrario, che qualunque allievo si entusiasma quando capisce che ciò che studia non è banale né scontato. Gli studenti si appassionano quando scoprono che esistono chiavi di lettura grazie alle quali possono andare oltre quello che semplicemente vedono.

La scuola deve quindi anche insegnare quale percorso intraprendere per avvicinarsi all’opera d’arte?
Certamente. Ritengo che compito di un insegnante, e anche di un autore, sia fornire un metodo di lettura, in modo tale da mettere i ragazzi nella condizione di rendersi autonomi rispetto al giudizio. Se uno studente capisce veramente quali sono le peculiarità di un periodo storico o cosa caratterizza la produzione di un artista, egli è in grado di riconoscere e comprendere anche opere che sul libro non ha studiato, perché non sono state trattate (ovviamente, non si può parlare di tutto) e che invece, magari, incontrerà il giorno in cui visiterà una città o un museo. È questa la grande sfida: proporre un metodo, e non presentare un poco di tutto, cosa che non rende alcun servizio a chi studia né merito a chi insegna. Bisogna, ripeto, accompagnare i ragazzi alla formulazione di un giudizio, che non può essere basato soltanto su preferenze di natura estetica.

Dal punto di vista linguistico che taglio ha scelto nei suoi testi? È meglio puntare in alto o bisogna semplificare il linguaggio?
Semplificare non basta. Ci vuole un linguaggio perfettamente comprensibile ma che non banalizzi i contenuti. Non è per niente semplice ottenere un tale risultato e io, proprio su questo fronte, ho lavorato con grande attenzione. Senza dubbio, l’esperienza di insegnamento più che ventennale mi ha molto aiutato.
È sicuramente vero che oggi i ragazzi non apprezzano, anzi rifiutano il linguaggio difficile e si annoiano a leggerlo. Gli studenti non sempre (e non tutti) perseverano nell’impegno di capire cosa c’è scritto nelle pagine di un libro, si scoraggiano, rinunciano, passano oltre. Nella sostanza, non studiano. Ma, a prescindere da questo problema, che sicuramente è fondamentale, mi chiedo: perché mai un autore deve scrivere in modo contorto, poco comprensibile e noioso? Per dimostrare a tutti quanto è colto? Io al contrario penso che chi ha esperienza e preparazione debba saper spiegare in modo chiaro, anche quando l’argomento è complesso. Anzi, soprattutto quando l’argomento è complesso. È sempre possibile proporre delle argomentazioni scientificamente valide usando un linguaggio semplice. Basta volerlo. Il più grande complimento che mi hanno fatto, recensendo il mio lavoro, è che nell’impostazione didattica e nello stile ricordo Gombrich, un grande storico dell’arte (cui ovviamente non intendo paragonarmi) che si distinse per la sua volontà di spiegare tutto in modo semplice. Non credo sia un caso che la sua storia dell’arte è ancora oggi la più venduta di tutti i tempi e nel mondo. Ha reso o non ha reso onore al suo mestiere di studioso arrivando a così tanta gente, accompagnando così tante persone nello studio della storia dell’arte?

Bisogna dunque saper catturare l’interesse degli studenti?
Ovviamente. I ragazzi, fuori dalla scuola, sono continuamente iperstimolati. In questo senso, paradossalmente, hanno una difficoltà in più. Sembrano abulici e indifferenti ma in realtà sono dotati di una curiosità vivissima, che però è legata al bombardamento dei media. Occorre aiutarli a comprendere anche il valore di una cultura che non è da fast food, che chiede di fermarsi a riflettere. Quando la scuola riesce in questo intento, ottiene risposte straordinarie dagli studenti. Così come tanto spesso i giovani di questa generazione si annoiano a studiare, altrettanto spesso si possono appassionare alle materie che vengono loro proposte. Ma questo esito non va dato per scontato. Una volta si andava a scuola già con il desiderio di imparare; oggi i ragazzi entrano in classe accompagnati da un atteggiamento di scetticismo. La grande sfida è coinvolgerli. Ed è una sfida che non possiamo permetterci di perdere.

Su che cosa puntare per farli uscire dalla curiosità superficiale, per favorire un autentico interesse?
Con il mio lavoro di autore ho scelto la via della complessità resa accessibile. Come dicevo, molto spesso la manualistica tende a semplificare tutto banalizzando, impoverendolo, perché parte dal presupposto che i ragazzi non abbiano voglia di approfondire, di capire, di scoprire. La mia sfida, invece, è stata quella di provare la strada opposta: svelare il fascino irresistibile della ricchezza culturale. Dimostrare che la cultura e la bellezza non sono concetti astratti ma fanno parte della nostra vita. E che rendono la nostra vita migliore.



a cura di Tommaso Lanosa
pubblicato in Libertà di educazione. Quaderno 36
http://libertadieducazione.ilsussidiario.net/


sabato 18 gennaio 2014

Come raccontare la storia dell’arte

Nella "Avvertenza per il lettore" del suo ultimo libro Guardar lontano, veder vicino, Philippe Daverio, storico dell’arte e brillante divulgatore televisivo, scrive: “Questo non sarà mai un libro di Storia dell’Arte, con le due auliche maiuscole, non assomiglia a uno di quei tomi scolastici che hanno forse lasciato tedio e sonnolenza sui banchi di scuola”. Ho molta stima di Daverio, ma non vorrei che questa sua osservazione nascondesse una tentazione di snobismo. Mi chiedo, senza voler fare il processo alle intenzioni: con quale spirito Daverio usa quell’aggettivo, “scolastico”? Vuol forse dire che i libri scritti per la scuola fanno parte, tutti quanti, di una categoria a sé? Monsieur Daverio sa certamente che tantissime persone, negli anni, hanno studiato la storia dell’arte sui testi scritti proprio per la scuola e che ancora oggi, all’università, la base della storia dell’arte si studia sui cosiddetti “testi di liceo”. Sicuramente non ignora che la storia dell’arte di Giulio Carlo Argan, un classico della storiografia novecentesca, è nato tecnicamente come “manuale scolastico”. Si legge fra le righe, ma probabilmente è un mio errore di valutazione, che secondo lui i libri di scuola sono, per definizione, "pallosi", come direbbero i ragazzi, giacché producono "tedio e sonnolenza" (provi un po' a dire "tedio e sonnolenza" in una classe e poi veda la reazione degli studenti: se gli va bene si mettono a ridere). Personalmente ritengo che un libro è prima di tutto un libro. E che esistono libri belli e libri brutti, scritti bene o male, avvincenti o noiosi. In ogni campo e per ogni destinatario. Lo so, ho detto un’ovvietà, ma era tanto per chiarire. Condivido, però, l’idea di fondo espressa da Daverio (il quale, chiariamolo, è persona di grande cultura e di arte sa parlare molto bene): la storia dell’arte si può raccontare in molti modi. C’è chi sceglie la strada della trattazione specialistica, ma con il pericolo di risultare pedante. Qualcuno insegue il mito della sintesi, rischiando di banalizzare tutto. Invece, credo, si può essere asciutti nella trattazione senza essere superficiali. E si può, e si deve, essere scientificamente rigorosi e aggiornati senza rendere pesante la materia. E questo, indipendentemente dal pubblico a cui ci si rivolge: studenti, universitari, adulti curiosi o appassionati, persino specialisti. Chi scrive di storia dell'arte deve saper essere essenziale ma non per questo riassuntivo, evitare di trattare un poco di tutto perché non rende alcun servizio né a chi studia né a chi insegna. Mi spingo a dire che ridurre la storia dell’arte a un elenco di autori e di opere o a un ricco atlante illustrato è addirittura un delitto. Meglio scegliere la strada della selezione degli argomenti, che ovviamente non dev’essere arbitraria, cioè legata al gusto personale dell’autore, ma dettata dalla sua esperienza didattica. A questo proposito, osservo che chi insegna in un liceo ha una marcia in più. Sa bene quanto sia difficile spiegare la storia dell’arte avendo a disposizione solo due ore alla settimana: deve sempre andare al cuore dei problemi e farlo proponendo modelli di riferimento particolarmente significativi. Un testo di storia dell’arte (che per sua natura non è una monografia) deve insegnare a capire. Deve accuratamente contestualizzare dipinti, sculture e monumenti architettonici; ricordare i rapporti fra gli autori e la committenza, politica, religiosa, privata; spiegare i significati simbolici di particolari che spesso chiariscono il senso dell’opera intera; illustrare le problematiche tecniche e strutturali che pittori, scultori e architetti hanno dovuto affrontare e risolvere. Di più, un buon libro di storia dell’arte si deve spingere a tratteggiare il carattere degli artisti; ricordarne i sogni, le aspirazioni, le frustrazioni. Non fornire le solite notizie biografiche. Bisogna presentare gli autori per ciò che erano: ossia uomini (e donne, talvolta), dotati di talento e anche di genio ma non per questo meno fragili, meno vulnerabili. Tutto questo nella consapevolezza che ogni opera d’arte è, sì, legata a fattori storici e ambientali ma è anche frutto di ricerche personali, porta i segni di tormenti interiori. L’arte non è solo espressione di epoche passate, più o meno remote: è testimonianza del pensiero, della fede, del coraggio, dell’amore di uomini straordinari, che alla fine dei conti ci assomigliano, più di quanto siamo disposti a credere. Tutto questo va raccontato senza essere "pallosi". Qui si consuma la differenza tra un autore e un altro. Chi scrive di arte svela mondi nascosti senza mantenerli misteriosi; educa alla bellezza senza farla apparire inaccessibile; stimola la capacità critica mostrando nuove prospettive di pensiero; offre strumenti di giudizio. Una bella sfida, senza dubbio.
P.S. È uscita la mia nuova storia dell’arte, L’Arte svelata, edita da Laterza. Sarebbe, tecnicamente, un manuale scolastico; è il secondo che scrivo, quindi sono un recidivo. Chissà che non faccia cambiare idea a Daverio, che saluto.

Giuseppe Nifosì

mercoledì 21 novembre 2012

Lo strano zoo di San Gerolamo


Verso il 1475, Antonello da Messina, straordinario pittore siciliano del XV secolo, dipinse una piccola tavola raffigurante San Gerolamo nello studio, che oggi, con nostra grande invidia, è conservata alla National Gallery di Londra. L’artista volle rappresentarvi il santo come un umanista del Quattrocento, seduto nella sua “zona studio” ricavata all’interno di un monumentale e singolare interno gotico: un oggetto d’arredo architet-tonico degno del più efficace design contemporaneo.  Do-po aver girovagato con lo sguardo dal mobile scrittoio, carico di occhiali, penne e boccette di inchiostro, ai libri, posati con cura sugli scaffali, chiusi, aperti, ammucchiati, ci accorgiamo che Gerolamo non è solo: nella stanza si trovano alcuni animali. A sinistra c’è un gatto che sonnecchia. A destra, un po’ nascosto nella penombra, un leone gironzola come un grosso cane tra le colonne del vasto ambiente vuoto. In quel contesto ci sembra francamente fuori posto. Altrettanto singolare è la presenza, in primo piano, di due paciosi volatili che sembrano appena sfuggiti a una voliera. Si tratta di una pernice e di un pavone. Accanto ad essi, si trova una bacinella di rame colma d’acqua. Serve ad abbeverare i pennuti? Siccome in pittura, e soprattutto in quella medievale e rinascimentale, nulla viene rappresentato per caso, escludiamo che si tratti di bizzarrie d’artista. Cioè, non è ragionevole pensare che Antonello, accortosi che gli era rimasto dello spazio vuoto, abbia deciso di riempirlo così. Per quanto riguarda il leone, la faccenda è semplice. Secondo una leggenda, Gerolamo, che visse da eremita nel deserto, tolse una spina dalla zampa del felino e l’animale, riconoscente e grato, gli divenne così devoto da seguirlo ovunque. Insomma, nei quadri in cui c’è il santo facilmente si trova anche il suo leone domestico. Più misterioso è il resto del serraglio e lì, per svelare il mistero, bisogna un po’ masticare di iconologia. Tutti questi animali sono altrettanti simboli che rivelano il tono aulico dell’intera composizione: il leone, aneddoti a parte, è simbolo della forza bruta vinta dalla pietà. La pernice allude alla fedeltà a Cristo, il pavone è simbolo della sapienza divina; l’acqua del catino richiama l’idea della purezza: e fedeltà, sapienza e purezza sono tutte virtù di cui Gerolamo è l’emblema. Un vecchio eremita coltissimo e saggio. Ma la cosa non finisce qui. L’opera, infatti, presenta due livelli di lettura, in un continuo rimando dall’uno all’altro a testimonianza della profonda vivacità intellettuale di Antonello. Pernice e pavone hanno una doppia valenza simbolica, poiché la prima è anche considerata simbolo di stoltezza, il secondo di superbia, mentre l’acqua, usata come specchio, è anche simbolo di vanità. E del resto sono elementi collocati fuori dall’ambiente in cui si trova il santo e cioè sulla cornice architettonica ma verso lo spettatore: ciò significa che stoltezza, superbia e vanità sono escluse dalla vita di Gerolamo e non oltrepassano la soglia del tempio della conoscenza. Anche il gatto, che sonnecchia ma può svegliarsi all’improvviso e colpire, simboleggia i bassi istinti da cui è bene guardarsi.
Giuseppe Nifosì

martedì 13 novembre 2012

L’importanza dei gesti


L’arte si serve di un efficace linguaggio non verbale, spesso immediatamente comunicativo, i cui codici si sono sviluppati nel tempo e che impiega particolari strumenti per rendere manifesto il significato delle immagini rappresentate. I personaggi che animano dipinti e sculture sono ovviamente muti, ma si rivolgono ugualmente all’osservatore “parlando” attraverso il linguaggio del corpo. Le parole non pronunciate sono efficacemente sostituite da gesti, pose, espressioni. La casistica dei gesti è molto ampia: vi sono gesti ancora oggi immediatamente comprensibili e comunicativi, altri che invece risultavano tali al pubblico cui le opere erano rivolte un tempo, e che a noi contemporanei possono invece apparire misteriosi o addirittura curiosi o buffi. Eppure, riconoscerne il vero significato è essenziale per una corretta e completa comprensione di un’opera. Nell’arte si individuano due grandi categorie di gesti: quelli descrittivi, che hanno un carattere prevalentemente illustrativo e indicano un’azione o dichiarano il ruolo sociale di un personaggio, e quelli espressivi, che rivelano sentimenti, emozioni, stati d’animo. Questi ultimi, codificati da una lunga tradizione iconografica, coinvolgono soprattutto braccia, mani e gambe. Per esempio, il gesto delle braccia spalancate, verso l’alto o all’indietro, equivale a un urlo straziante, l’espressione più alta del dolore e della disperazione. Nelle Crocifissioni, nei Compianti e nelle Deposizioni è un’incontrollabile esplosione di angoscia, piuttosto tipica delle figure femminili e in particolare della Maddalena, e si contrappone al dolore muto ma lacerante della Madonna. Al contrario, il gesto del braccio destro piegato e appoggiato al corpo, con il palmo della mano rivolto all’esterno, simboleggia la sottomissione al volere superiore di Dio e indica l’accettazione di una dolorosa realtà. Le braccia conserte, invece, simboleggiano uno stato di inattività, proprio di chi assiste alla manifestazione di un’azione in qualità di testimone, senza parteciparvi in maniera attiva. Quando si trovano in questa postura gli angeli che circondano la Madonna, il gesto denota uno stato d’animo adorante e contemplativo.

Giuseppe Nifosì

Ma come fa uno squalo a valere 12 milioni di dollari?


«Nell’arte contemporanea i soldi complicano e influenzano tutto e tutti». È quanto ha affermato l’economista britannico Don Thompson, autore di un saggio in cui ha recentemente indagato i meccanismi che consentono a talune opere d’arte contemporanea di raggiungere quotazioni da capogiro. Lo squalo in formaldeide dell’artista britannico Damien Hirst si può portare come l’esempio significativo. Per comprendere oggi il mercato dell’arte contemporanea non si deve mai dimenticare in quale contesto vivono e agiscono i suoi personaggi: da una parte gli artisti, protagonisti del mondo dell’arte ma spesso anche dei rotocalchi e del jet set; dall’altro gli acquirenti, il più delle volte milionari che investono delle fortune in arte conducendo complesse operazioni di mercato e di immagine. Per esempio, Steve Cohen, il magnate americano che ha pagato lo squalo imbalsamato di Hirst ben 12 milioni di dollari, gestisce un fondo di investimento, guadagna oltre 500 milioni di dollari l’anno ed espone la sua collezione d’arte nelle sue residenze. Nessuno si scandalizza più di fronte al fatto che l’arte contemporanea, soprattutto quella prodotta da artisti ancora viventi, è frutto di creatività ma anche, per usare un’espressione del settore, di “brandizzazione”: non c’è artista oggi che non aspiri a diventare un marchio ben riconoscibile, a “brandizzarsi”. Il brand, che sul mercato è appunto il marchio, in arte è quell’insieme di segni facilmente identificabili che riconducono a un nome: come dire che le sculture a forma di palloncino sono Koons, gli animali in formaldeide sono Hirst. Più il nome è famoso, più l’artista è una “star dell’arte”, più le opere aumentano le loro quotazioni sul mercato. Questo ovviamente non toglie nulla al valore degli artisti: il solo brand, chiariamolo, non basta. Ma sarebbe sciocco semplificare il quadro dell’arte contemporanea ignorando che il brand è oggi un valore aggiunto. Come scrive acutamente Thompson, «il concetto di branding è di solito associato a prodotti di consumo e consente di acquisire affidabilità. Una Mercedes offre la rassicurazione del prestigio, Prada quella dell’eleganza. Anche l’arte brandizzata funziona così. Può capitare che gli amici sgranino gli occhi se dite loro “Ho pagato quella statua di ceramica 5,6 milioni di dollari”. Ma nessuno obietterà nulla se dite “l’ho presa da Sotheby’s”, oppure “è il mio nuovo Jeff Koons”. Il branding di successo ha avuto un’influenza notevole nel far salire le quotazioni delle opere e continuerà a esercitarla ancora a lungo». Il punto è che le quotazioni degli artisti contemporanei più noti continueranno a salire. Anche i prezzi dell’arte, insomma, sono alimentati dal cosiddetto “effetto di irreversibilità”: le quotazioni di certi artisti sono oramai “irreversibili” e non scendono, possono solo progredire verso l’alto. D’altro canto, il numero dei miliardari è in continua crescita e così quello dei collezionisti. E fino a quando le opere d’arte saranno in grado di garantire uno status sociale, gli artisti potranno continuare a produrre opere dalle altissime quotazioni.
Giuseppe Nifosì

Un nuovo Gombrich?


Arte in primo piano è la Storia dell'Arte di Giuseppe Nifosì, edita dalla Casa Editrice Laterza

La recensione del Prof. Fabrizio Biferali di Arte in primo piano

Nella prefazione alla celeberrima Storia dell’arte raccontata da E. H. Gombrich, risalente alla metà del Novecento ma per certi versi ancora molto attuale, il sommo storico dell’arte viennese sottolineava con forza quali dovessero essere le tre regole auree per realizzare un efficace e il più possibile imparziale manuale di storia dell’arte:
1) «La prima di queste regole è stata quella di non parlare di opere che non potessi mostrare nelle illustrazioni; non volevo che il testo degenerasse in elenchi di nomi più o meno oscuri a quanti non conoscevano le opere in questione, e superflue per chi invece ne era a conoscenza»;
2) «La seconda regola è stata quella di limitarmi ad autentiche opere d’arte, eliminando tutto quanto fosse solo interessante come esempio di gusto o di moda»;
3) «La terza regola richiedeva anch’essa un lieve sacrificio. Mi impegnai a respingere ogni tentazione di originalità nella mia scelta, affinché capolavori conosciutissimi non fossero esclusi per far posto alle mie predilezioni personali».
Il manuale di storia dell’arte a firma di Giuseppe Nifosì Arte in primo piano. Guida agli autori e alle opere, pubblicato da Laterza, raccoglie a piene mani l’eredità di Gombrich, fatta poi propria anche da altri illustri studiosi quali Giulio Carlo Argan, Giuliano Briganti o Angiola Maria Romanini, autori di manuali destinati a incontrare il favore del pubblico e della critica. Oltre a seguire l’esempio normativo di Gombrich e dei suoi epigoni nell’ideazione di un manuale di storia dell’arte, un’operazione che già di per sé farebbe tremare i polsi per la immane mole di periodi, artisti e opere da prendere in esame, Nifosì ha voluto dare ampio risalto all’arte europea, i cui sviluppi risultano da sempre indissolubilmente intrecciati alla genesi e agli esiti dell’arte italiana. Non mancano, inoltre, approfondimenti su una produzione artistica considerata a torto «minore», ossia quella degli arredi e dei molteplici oggetti che formano un arredo.
I volumi sono strutturati su più livelli, ciascuno dei quali offre un diverso grado di approfondimento: come spiega l’autore, il primo livello è rappresentato da un testo che precede il capitolo vero e proprio e che «affronta sinteticamente l’argomento del capitolo stesso e può all’occorrenza sostituirlo, per una trattazione più rapida, per un ripasso, per una veloce consultazione»; il secondo livello, invece, «sviluppa l’argomento in un quadro storico ampio e si basa sull’analisi delle opere, alcune delle quali sono poste in primo piano perché meritano una particolare attenzione critica»; il terzo e ultimo livello, infine, è costituito da «una serie di apparati, cioè voci di glossario e schede, che sviluppano e approfondiscono gli argomenti trattati, soffermandosi sul significato dei termini utilizzati, sulle fonti dell’arte, sull’iconografia delle opere, sulle problematiche artistiche più complesse, sulle tecniche più comunemente usate».
Quello che alla fine emerge sfogliando il manuale di Nifosì, che si snoda attraverso un percorso diacronico dal Paleolitico all’arte contemporanea, è la straordinaria parabola creativa dell’uomo analizzata nelle sue più originali e influenti realizzazioni artistiche e nei suoi più disparati strumenti, materiali, supporti, tecniche. Pur nella necessità di dover sintetizzare epoche storiche complesse e talvolta divergenti tra loro, artisti e committenti di ogni latitudine, oggetti differenti per forma e per contenuto, Nifosì ha saputo tratteggiare con un linguaggio chiaro e semplice, ma mai privo di rigore filologico, il lungo e complesso percorso storico dell’umanità attraverso le sue innumerevoli rappresentazioni e autorappresentazioni più o meno realistiche, più o meno simboliche, più o meno celebrative. Insomma, ha tratteggiato con abilità e leggerezza la millenaria e affascinante avventura del linguaggio dell’arte.
D’altra parte l’uomo senza l’arte, come già dimostrano le ingenue creazioni databili all’alba della sua storia, non sa vivere, ma sa solo sopravvivere: per mezzo della creazione artistica, infatti, l’essere umano modella la sua vita e i suoi gusti, ma anche la natura che lo circonda, spesso piegandola ai suoi scopi e non di rado migliorandola, verrebbe da dire «umanizzandola». Non a caso, forse, il motto scelto da Tiziano recitava orgogliosamente, raccogliendo i frutti di una tradizione ancestrale, NATVRA POTENTIOR ARS, «l’arte è più potente della natura».

Fabrizio Biferali

Della pazzia di Van Gogh e della sua morte



Foto: ARTicolando (arte in pillole)
Della pazzia di Van Gogh e della sua morte
Vuole un consolidato luogo comune che Van Gogh fosse pazzo. Di fatto, questa tesi è persino sostenuta in alcune monografie e si legge, non troppo fra le righe, anche in talune storie dell’arte. Come ha scritto magistralmente lo scrittore Antonin Artaud (1896-1948), autore del celeberrimo saggio Van Gogh, il suicidato della società (1947), l’artista era un visionario fin troppo lucido, dotato «di quella superiore lucidità che consente [...] di vedere infinitamente e pericolosamente oltre il reale». Il crollo psichico avuto ad Arles fu da tutti interpretato come follia e a mettersi nei panni dei poveri arlesiani si può pure capire. Ma Van Gogh non era pazzo. Non tecnicamente, almeno. Soffriva di allucinazioni, di melanconia, di prostrazione e di momenti di amnesia, tutti disturbi provocati e talvolta amplificati dall’abuso di alcol e di assenzio o forse da una forma di epilessia. Scrive ancora Artaud: «Pazzo Van Gogh? Chi, un giorno, è stato capace di guardare un volto umano, osservi l’autoritratto di Van Gogh. Non conosco un solo psichiatra capace di scrutare un volto umano con la stessa forza e la stessa potenza, di sezionarne spietatamente l’inconfutabile psicologia». Allora, direte, perché si è tagliato un orecchio? Perché si è ammazzato? La faccenda del taglio dell’orecchio merita riflessioni approfondite che rimandiamo a una prossima puntata. Anche sul suicidio avrei molte cose da dire. Diciamo che è stato un tentativo di suicidio andato male… nel senso che poi Van Gogh è morto sul serio! Io non sono così sicuro che volesse davvero uccidersi. Ma mettiamo, per ora, che sia stato davvero così. In una delle ultime lettere a Theo, Van Gogh scrisse che la sua morte avrebbe potuto porre fine al travaglio della famiglia: le sue opere sarebbero aumentate di valore e Theo, con la giovane moglie e il figlioletto Vincent appena nato, avrebbero potuto condurre una vita migliore. A prendere per buone queste affermazioni, si dovrebbe concludere che Vincent si uccise per fare qualcosa di utile, per realizzare l'ultima missione della sua vita, lui che (nella sua testa) non era mai riuscito a combinare nulla. Sicuramente, la tutela familiare è solo una delle possibili risposte. Forse l’artista voleva solamente porre fine al devastante senso di fallimento che lo affliggeva. Anche perché, secondo recentissime ipotesi, non fu in questo campo di grano che Vincent si sparò, come una tradizione di stampo romantico ci ha raccontato per anni, ma – assai simbolicamente – in una concimaia! L’ultimo oltraggio che Van Gogh volle fare a sé stesso e al mondo.
Vuole un consolidato luogo comune che Van Gogh fosse pazzo. Di fatto, questa tesi è persino sostenuta in alcune monografie e si legge, non troppo fra le righe, anche i
n talune storie dell’arte. Come ha scritto magistralmente lo scrittore Antonin Artaud (1896-1948), autore del celeberrimo saggio Van Gogh, il suicidato della società (1947), l’artista era un visionario fin troppo lucido, dotato «di quella superiore lucidità che consente [...] di vedere infinitamente e pericolosamente oltre il reale». Il crollo psichico avuto ad Arles fu da tutti interpretato come follia e a mettersi nei panni dei poveri arlesiani si può pure capire. Ma Van Gogh non era pazzo. Non tecnicamente, almeno. Soffriva di allucinazioni, di melanconia, di prostrazione e di momenti di amnesia, tutti disturbi provocati e talvolta amplificati dall’abuso di alcol e di assenzio o forse da una forma di epilessia. Scrive ancora Artaud: «Pazzo Van Gogh? Chi, un giorno, è stato capace di guardare un volto umano, osservi l’autoritratto di Van Gogh. Non conosco un solo psichiatra capace di scrutare un volto umano con la stessa forza e la stessa potenza, di sezionarne spietatamente l’inconfutabile psicologia». Allora, direte, perché si è tagliato un orecchio? Perché si è ammazzato? La faccenda del taglio dell’orecchio merita riflessioni approfondite che rimandiamo a una prossima puntata. Anche sul suicidio avrei molte cose da dire. Diciamo che è stato un tentativo di suicidio andato male… nel senso che poi Van Gogh è morto sul serio! Io non sono così sicuro che volesse davvero uccidersi. Ma mettiamo, per ora, che sia stato davvero così. In una delle ultime lettere a Theo, Van Gogh scrisse che la sua morte avrebbe potuto porre fine al travaglio della famiglia: le sue opere sarebbero aumentate di valore e Theo, con la giovane moglie e il figlioletto Vincent appena nato, avrebbero potuto condurre una vita migliore. A prendere per buone queste affermazioni, si dovrebbe concludere che Vincent si uccise per fare qualcosa di utile, per realizzare l'ultima missione della sua vita, lui che (nella sua testa) non era mai riuscito a combinare nulla. Sicuramente, la tutela familiare è solo una delle possibili risposte. Forse l’artista voleva solamente porre fine al devastante senso di fallimento che lo affliggeva. Anche perché, secondo recentissime ipotesi, non fu in un campo di grano che Vincent si sparò, come una tradizione di stampo romantico ci ha raccontato per anni, ma – assai simbolicamente – in una concimaia! L’ultimo oltraggio che Van Gogh volle fare a sé stesso e al mondo.
Giuseppe Nifosì