Intervista a
Giuseppe Nifosì
Professor Nifosì, a suo
avviso qual è la funzione di un libro di testo?
L’oggetto da conoscere non è il libro in sé ma,
ovviamente, la disciplina. Il libro è prima di tutto uno strumento, che deve
aiutare l’insegnante a insegnare e lo studente a imparare. Può risultare ovvio
ma non è così scontato. Chi sostituisce la disciplina con il libro di testo
compie un errore gravissimo, perché rischia di inaridire la sua materia. Ciò
detto, è altrettanto vero che i ragazzi imparano anche attraverso il libro.
Bisogna quindi saper valorizzare i testi e saperli usare.
Il libro è dunque uno
strumento. Ce ne sono altri?
Il primo strumento in assoluto è il dialogo con i
ragazzi. Gli studenti incontrano una materia attraverso la parola e,
aggiungerei, il cuore dell’insegnante, che dovrebbe essere sopra ogni cosa “un
maestro”, nell’accezione più nobile del termine. Credo ancora molto nel potere
affabulatorio dei professori. Anche quando si utilizzano supporti digitali o
cartacei, tali strumenti non devono sostituire il contributo essenziale
dell’insegnante; devono casomai aiutarlo a fare il proprio lavoro. Non credo
che un libro di testo possa sostituire un bravo insegnante. E’ altrettanto vero,
però, che un buon libro di testo può essere un validissimo aiuto anche per
l’insegnante più bravo. Ma, e questo è il punto, dev’essere veramente un buon
libro, e non il risultato di una semplice operazione editoriale. Ci sono libri
scritti per vendere, asserviti alle regole del marketing, e che quindi
risultano neutri, freddi. Questi non coinvolgeranno mai gli studenti e
lasceranno il docente “da solo” a svolgere il suo, peraltro difficile, compito.
Altri testi sono scritti da chi lavora con passione, e questo si capisce anche
solo leggendone poche pagine. Personalmente, difendo i testi concepiti da un
solo autore o da pochi autori che lavorano bene, insieme, da anni.
E chi è il bravo insegnante?
Il bravo insegnante è l’uomo, la donna, che con le sue
conoscenze, con le sue competenze e prima di tutto con la sua passione e l’amore
per la sua materia, può accompagnare i ragazzi in un percorso che non è solo di
apprendimento ma di conoscenza.
Un bravo insegnante ha
bisogno del libro di testo?
Come dicevo, un bravo insegnante riesce a coinvolgere
i ragazzi anche senza fare uso del libro in classe. È chiaro, però, che il
libro è indispensabile, perché è con questo che i ragazzi poi si misurano nello
studio. Quindi, dal libro di testo non si può prescindere. Ecco perché va
scelto bene. Non credo affatto che gli studenti, a casa, possano gestire la
materia solo utilizzando i propri appunti, che hanno un valore molto relativo, anche
perché i ragazzi, al liceo, non sanno ancora prenderli.
Che rapporto c’è, o che
rapporto ci dovrebbe essere, tra lezioni e libro di testo?
Se il docente non apprezza il libro che si è trovato
in adozione, proporrà agli alunni un percorso diverso da quello delineato dal
testo o addirittura confliggente con esso. Per i ragazzi questo è dannoso,
perché possono andare in confusione: non sanno se devono fare riferimento a
quello che ha detto l’insegnante o a quanto c’è scritto sul libro. Quindi, la
condizione ideale è che il docente apprezzi il libro adottato, che lavori non
“attraverso di esso” ma “insieme” ad esso, e che metta i ragazzi in condizione
di proseguire anche da soli, quando poi sono a casa a studiare, quel percorso di
conoscenza intrapreso in classe. Un buon libro di testo, insomma, dovrebbe
essere come una sorta di professore virtuale e chi scrive i cosiddetti “manuali
scolastici” (termine che detesto perché lo considero riduttivo) dovrebbe essere
consapevole di avere una grande responsabilità: perché, supportando il lavoro
dell’insegnante, a sua volta insegna.
Il docente deve quindi
insegnare a usare il libro?
Certo. Il docente non può prescindere dal libro, nella
misura in cui è consapevole che su quello i ragazzi dovranno prepararsi. La
conoscenza del testo da parte del professore, le sue indicazioni sull’uso del
libro fornite a scuola aiutano gli studenti a diventare autonomi nello studio.
Torniamo all’oggetto della
disciplina. Un buon libro sulla Cappella Sistina non è la Cappella Sistina.
Qual è, dunque, nello specifico il compito di un professore di storia
dell’arte?
In classe bisogna aiutare i ragazzi a comprendere
dell’arte, a scoprire la bellezza che l’arte ci racconta, a indagare il mondo
che dietro l’arte si nasconde, a riconoscere l’uomo che vive dentro l’artista,
cioè la persona e non solo il personaggio. È evidente che la storia dell’arte
non sostituisce l’arte, è evidente che un libro che parla della Sistina non
sostituisce la Sistina. Però è importantissimo che – augurando ai ragazzi di
poter vedere l’originale, e più di una volta – il docente e il libro insegnino
ai ragazzi a guardare la Sistina.
In che modo?
Come dicevo, introducendoli in un percorso di
scoperta. La storia dell’arte è una faccenda complessa. Si corre il rischio di
identificarla con la semplice visione dell’opera d’arte, con certe coordinate
di lettura (forma, colore, composizione) utili ma non esaustive. Invece, la questione
è molto diversa e molto più affascinante. L’opera d’arte cela tutto un mondo
che deve essere svelato ai ragazzi.
Questo è il compito del docente. È un compito
difficile, e io credo che un professore possa assolverlo al meglio se sostenuto
da un libro di testo adeguato. I libri di storia dell’arte che si limitano a
descrivere l’opera d’arte (quanti ce ne sono!), che non svelano il mondo
dell’arte, privano i giovani, che stanno imparando a comprendere la realtà, a
conoscere la vita, di una grande opportunità. Gli atlanti illustrati con tante
foto e testi poveri sono libri poco utili, perché non sono capaci di accendere
alcuna scintilla.
Come si accende questa
scintilla?
Tante volte i ragazzi dicono: «A me l’arte non piace»,
«Non la capisco» o addirittura «Io odio la storia dell’arte». Che questo accada
mi sembra veramente un delitto.
Insegnare la nostra materia è diventato molto
difficile, perché i ragazzi oggi sono continuamente bombardati da immagini. Tra
video, foto e cinema, sono talmente abituati a vedere immagini colorate,
compresse, in vorticoso movimento che spesso trovano banale, noioso ciò che
vedono o leggono sui libri e che a loro non alimenta alcuna passione. Insomma,
l’arte rischia di essere vista come un videogioco oramai vecchio, superato. Ma
questo accade quando i ragazzi non capiscono veramente ciò che studiano.
Quindi, a maggior ragione, la scuola ha oggi il compito di guidare i giovani
alla scoperta del mondo e delle proprie radici culturali. È senza dubbio una
bellissima sfida.
Lei è un autore di libri, ha
già scritto due testi scolastici. Immagino sia stato lei a scegliere quali
immagini pubblicare nelle sue storie dell’arte. Ecco: testo e immagini. In un
manuale di storia dell’arte che relazione ci deve essere tra i due elementi?
Un libro di storia dell’arte non può essere solo di testo,
fatto solo di parole, perché le immagini “sono” l’arte, o meglio la
rappresentano. D’altro canto non ci si può limitare a mostrare delle belle
immagini che poi non vengono spiegate. Io, come lei ricordava, ho scritto due
storie dell’arte, entrambe edite da Laterza: Arte in primo piano, che è del 2010, e L’arte svelata, che è uscita proprio quest’anno. In entrambi i casi,
le immagini hanno grande importanza ma sono sostenute da uno scritto che non
solo le descrive – a volte le immagini parlano anche da sé – ma guida lo
studente alla scoperta delle opere proposte.
Ci sono due possibili approcci all’arte o
all’architettura. Uno istintivo, legato al gusto personale. Questo è favorito
da tutti quei libri d’arte (e non mi riferisco sono ai testi scolastici) che si
limitano a “presentare” i grandi capolavori e mettono il lettore giusto nelle
condizioni di dire «mi piace», «non mi piace». Un secondo possibile approccio
conduce invece a una comprensione più profonda di quelle opere. Un testo di storia dell’arte (che, attenzione, per sua
natura non è una monografia) deve prima di tutto insegnare a capire.
In che modo?
Le opere d’arte, e allo stesso modo i monumenti
architettonici, devono essere presentati a più livelli: contestualizzati,
inseriti nel loro periodo storico, legati ai
rapporti che gli autori avevano con la committenza, politica, religiosa,
privata. Devono essere anche chiarite le problematiche tecniche e strutturali che
pittori, scultori e architetti hanno dovuto affrontare e risolvere. Le opere d’arte vanno spiegate,
in altri termini, e spiegate sul serio. Altrimenti non si comprendono davvero.
Si crede di averlo farlo ma è solo una illusione. Ed è anche un peccato.
Inoltre, ogni opera deve essere analizzata in relazione alla vita e alla
personalità dell’artista. Questo è un aspetto sul quale punto molto come
autore: non dobbiamo dimenticare che l’opera d’arte è sicuramente il portato di
una cultura ma è anche l’esito di un’esperienza personale. È, sì, legata a fattori storici e ambientali ma è
anche frutto di ricerche personali, porta i segni di tormenti interiori. Gli
artisti, gli architetti, sono stati uomini, prima di tutto, come noi: uomini (e donne, ovviamente) pieni di talento,
talvolta geniali ma non per questo meno fragili, meno vulnerabili. La
loro umanità non dev’essere dimenticata. È
nostro compito ricordarne i sogni, le aspirazioni, le frustrazioni, senza limitarci
a fornirne le solite notizie biografiche. Questo ce li rende vicini, li
mantiene vivi. Ci svela, e soprattutto rivela ai ragazzi, che alla fine dei
conti tutti gli artisti, anche i più grandi, ci assomigliano.
Ritiene che questo approccio
sia una peculiarità dei testi che lei ha scritto?
Assolutamente si. È stato, anzi, il mio presupposto. La storia dell’arte si può raccontare in molti modi. Ma
non credo che tutti i modi siano giusti. Riconosco che ci sono buoni
testi in circolazione, però molti di questi, a mio modesto avviso, non vanno
granché a fondo nella faccenda: non cercano di spiegare la storia dell’arte
nella sua complessità.
Vedo che molti autori inseguono il
mito della sintesi a tutti i costi. Prevale nei loro scritti la falsa idea che la storia
dell’arte vada riassunta e semplificata. Non sono d’accordo, perché spesso
semplificare significa banalizzare. Credo che la storia dell’arte sia da
presentare in tutta la sua complessità, che vada resa chiara ma non sterilizzata.
Si può essere asciutti nella trattazione (talvolta
è necessario esserlo) ma non per questo diventare superficiali.
Per esempio, tante opere d’arte presentano al loro
interno una serie di simboli (rappresentazioni di oggetti, piante e gesti) che
offrono chiavi di lettura importantissime per accedere al vero significato dei
soggetti illustrati. Questo particolare approccio allo studio dell’arte, tipico
degli iconologi, spaventa molti autori. Ma non parlare dei simboli significa
mortificare la lettura di un’opera d’arte. E, d’altro canto, ritenere che trattare
di queste cose possa annoiare i ragazzi è un clamoroso errore. L’esperienza mi
insegna, al contrario, che qualunque allievo si entusiasma quando capisce che
ciò che studia non è banale né scontato. Gli studenti si appassionano quando
scoprono che esistono chiavi di lettura grazie alle quali possono andare oltre
quello che semplicemente vedono.
La scuola deve quindi anche insegnare
quale percorso intraprendere per avvicinarsi all’opera d’arte?
Certamente. Ritengo che compito di un insegnante, e
anche di un autore, sia fornire un metodo di lettura, in modo tale da mettere i
ragazzi nella condizione di rendersi autonomi rispetto al giudizio. Se uno
studente capisce veramente quali sono le peculiarità di un periodo storico o
cosa caratterizza la produzione di un artista, egli è in grado di riconoscere e
comprendere anche opere che sul libro non ha studiato, perché non sono state
trattate (ovviamente, non si può parlare di tutto) e che invece, magari,
incontrerà il giorno in cui visiterà una città o un museo. È questa la grande
sfida: proporre un metodo, e non presentare un
poco di tutto, cosa che non rende alcun servizio a chi studia né merito a chi
insegna. Bisogna, ripeto, accompagnare i ragazzi alla formulazione di un
giudizio, che non può essere basato soltanto su preferenze di natura estetica.
Dal punto di vista
linguistico che taglio ha scelto nei suoi testi? È meglio puntare in alto o
bisogna semplificare il linguaggio?
Semplificare non basta. Ci vuole un linguaggio
perfettamente comprensibile ma che non banalizzi i contenuti. Non è per
niente semplice ottenere un tale risultato e io, proprio su questo fronte, ho
lavorato con grande attenzione. Senza dubbio, l’esperienza di insegnamento più
che ventennale mi ha molto aiutato.
È sicuramente vero che oggi i ragazzi non apprezzano,
anzi rifiutano il linguaggio difficile e si annoiano a leggerlo. Gli studenti
non sempre (e non tutti) perseverano nell’impegno di capire cosa c’è scritto nelle
pagine di un libro, si scoraggiano, rinunciano, passano oltre. Nella sostanza,
non studiano. Ma, a prescindere da questo problema, che sicuramente è fondamentale,
mi chiedo: perché mai un autore deve scrivere in modo contorto, poco
comprensibile e noioso? Per dimostrare a tutti quanto è colto? Io al contrario
penso che chi ha esperienza e preparazione debba saper spiegare in modo chiaro,
anche quando l’argomento è complesso. Anzi, soprattutto quando l’argomento è
complesso. È sempre possibile proporre delle argomentazioni scientificamente
valide usando un linguaggio semplice. Basta volerlo. Il più grande complimento
che mi hanno fatto, recensendo il mio lavoro, è che nell’impostazione didattica
e nello stile ricordo Gombrich, un grande storico dell’arte (cui ovviamente non
intendo paragonarmi) che si distinse per la sua volontà di spiegare tutto in
modo semplice. Non credo sia un caso che la sua storia dell’arte è ancora oggi
la più venduta di tutti i tempi e nel mondo. Ha reso o non ha reso onore al suo
mestiere di studioso arrivando a così tanta gente, accompagnando così tante
persone nello studio della storia dell’arte?
Bisogna dunque saper
catturare l’interesse degli studenti?
Ovviamente. I ragazzi, fuori dalla scuola, sono
continuamente iperstimolati. In questo senso, paradossalmente, hanno una
difficoltà in più. Sembrano abulici e indifferenti ma in realtà sono
dotati di una
curiosità vivissima, che però è legata al bombardamento dei media. Occorre
aiutarli a comprendere anche il valore di una cultura che non è da fast food, che chiede di fermarsi a
riflettere. Quando la scuola riesce in questo intento, ottiene risposte
straordinarie dagli studenti. Così come tanto spesso i giovani di questa
generazione si annoiano a studiare, altrettanto spesso si possono appassionare
alle materie che vengono loro proposte. Ma questo esito non va dato per
scontato. Una volta si andava a scuola già con il desiderio di imparare; oggi i
ragazzi entrano in classe accompagnati da un atteggiamento di scetticismo. La
grande sfida è coinvolgerli. Ed è una sfida che non possiamo permetterci di
perdere.
Su che cosa puntare per
farli uscire dalla curiosità superficiale, per favorire un autentico interesse?
Con il mio lavoro di autore ho scelto la via della
complessità resa accessibile. Come dicevo, molto spesso la manualistica tende a
semplificare tutto banalizzando, impoverendolo, perché parte dal presupposto
che i ragazzi non abbiano voglia di approfondire, di capire, di scoprire. La
mia sfida, invece, è stata quella di provare la strada opposta: svelare il
fascino irresistibile della ricchezza culturale. Dimostrare che la cultura e la
bellezza non sono concetti astratti ma fanno parte della nostra vita. E che
rendono la nostra vita migliore.
a cura di Tommaso
Lanosa
pubblicato in Libertà di educazione. Quaderno 36
http://libertadieducazione.ilsussidiario.net/